Come l’Everest potrebbe essere percepito più basso del K2
E’ il sogno degli scalatori, la vetta più ambita, l’obiettivo che spinge la fisiologia umana verso i propri limiti. Stiamo parlando dell’Everest, che con i suoi 8848 metri s.l.m. rappresenta il tetto del mondo.
CARENZA DI OSSIGENO – Salire a quelle quote richiede mesi di allenamento fisico e mentale, oltre ad una grande esperienza alpinistica maturata nel corso della vita.
Ma c’è di più: a quasi 9000 metri l’atmosfera è estremamente rarefatta e gli alpinisti che si avventurano senza ossigeno supplementare sono una gran minoranza. Ad oggi se ne contano soltanto 177.
I rischi derivati dalla carenza di ossigeno possono produrre una serie di problemi, tra i quali l’edema polmonare, l’edema cerebrale e l’embolia.
DIFFICOLTA’ VARIABILE – Tuttavia, come dimostrato ora da uno studio pubblicato su iScience, la difficoltà di scalata non è costante e varia sensibilmente a seconda della pressione atmosferica.
Ma andiamo con ordine. Come sappiamo la pressione atmosferica diminuisce con la quota, determinando un minor numero di molecole di ossigeno. L’aria diviene più sottile e la respirazione comincia a rendersi sempre più difficoltosa.
Le condizioni meteorologiche molto variabili determinano un’alterazione costante della quantità di ossigeno a disposizione, ergo l’elevazione percepita dagli alpinisti può variare a seconda delle circostanze sino a centinaia di metri.
LA RICERCA – Tom Matthews, un ricercatore della Loughborough University in collaborazione con il suo team di ricerca, ha analizzato 40 anni di dati pressori su base oraria delle stazioni meteorologiche poste quasi sulla vetta della montagna, riscontrando valori compresi tra 309 e 343 hPa (anche se il range nei giorni di scalata è compreso tra 329 e 340 hPa).
Dati significativi che dimostrano come la quota relativa che un alpinista potrebbe percepire in periodi diversi può variare di ben 737 metri. Ciò significa che in determinati giorni favorevoli sul K2 potrebbe essere percepita una quota più elevata dal nostro corpo.
PERIODO DI SCALATA – Se dovessimo scegliere il periodo migliore di scalata guarderemmo all’estate, quando la pressione è mediamente più alta. Tuttavia, tale periodo coincide con la stagione dei monsoni, che produce intense nevicate e un elevato pericolo valanghe; ecco perché gli alpinisti scelgono di effettuare l’impresa a Maggio o ad Ottobre. Una via di mezzo che consente di avere un buon numero di giornate stabili e pressione elevata.
Sino a qualche tempo fa l’inverno non era preso in considerazione per i noti fattori legati al gelo e ai fortissimi venti, ma la ricerca di Matthews ne aggiunge un terzo: la disponibilità di ossigeno limitata. L’arrivo del Jet Stream è sinonimo di una pressione media molto più bassa e di conseguenza maggiore carenza di ossigeno. Un’impresa riuscita soltanto ad Ang Rita Shera, nel 1987.
Tuttavia, dicono i ricercatori, anche durante questa stagione esistono delle oscillazioni, che se particolarmente fortunate, potrebbero riprodurre una giornata primaverile. Ma il rischio è troppo elevato.
IL FUTURO – Gli scienziati hanno poi speso parte del tempo alle previsioni future. Il noto cambiamento climatico, specie il surriscaldamento della Terra, influenzerà la disponibilità di ossigeno sugli ottomila della Terra.
Un clima più caldo determinerà un’atmosfera meno densa e quindi maggiore disponibilità di ossigeno. Se la temperatura si alzasse di 2°C medi, l’elevazione percepita si abbasserebbe di circa 100 metri, rendendo un po’ più semplice l’impresa.
La possibilità di scalare l’Everest senza l’ausilio di ossigeno supplementare diverrà, pertanto, sempre più plausibile.