The Beach, il mondo altrove oggi
Le vacanze di Natale e l’inizio del nuovo anno sono passate in un clima surreale, che perdura nel rigido inverno europeo e nel panorama delle restrizioni. Queste ultime frustrano senz’altro il desiderio di svago o di fuga, ma ci rendono difficile anche uno stile di vita sano ed equilibrato, dall’alimentazione al moto.
In questo scenario l’evasione è appaltata, per così dire, a prodotti d’intrattenimento come le piattaforme di video on demand, e proprio su una di queste ho assistito, assieme alla mia compagna, ad un vecchio film di Di Caprio: “The Beach”. Il film è un salto nello spazio, ma prima di tutto si percepisce il salto nel tempo indietro ad un Di Caprio giovanissimo, che si muove zaino in spalla tra internet cafè e luoghi esotici.
Non è certamente la sede per improvvisare una critica cinematografica ad un film molto controverso, né del resto avrei le competenze per farlo, ma rimane il fatto che la pellicola sia inquietante e muova interessanti tensioni rispetto ai luoghi “altri”, che tipicamente si immaginano con contrastanti sentimenti nell’agio dei nostri salotti, e che ci fanno sognare in modo quasi mai lineare ed asettico, pur a confronto con un confortably numb che siamo costretti da troppo tempo a vivere.
Di Caprio-Richard incontra a Bangkok un uomo instabile che, prima di suicidarsi, gli consegna una mappa in cui è indicato un luogo meraviglioso, una spiaggia dove si è insediata, in segreto, una comunità di viaggiatori. La spiaggia, una laguna su un’isola, che forniva ad una mente ormai definitivamente compromessa “to much input, too much sensation”, come si dice nei dialoghi originali. Un luogo non immaginario, ma che di immaginario aveva molto, in quanto si trovava completamente separato dal resto del Mondo.
Giocando con la mappa impugnata da Di Caprio e confrontandola con le immagini di Google Earth® ho cercato di collocare “the beach”, trovando una certa corrispondenza tra quanto indicato nella mappa sgualcita e ricca di fascino del film con la zona ad Ovest di Koh Pha Ngan, un’isola nel golfo di Thailandia, un paradiso tropicale, meta turistica molto gettonata (Isola di Koh Phangan).
Richard, il protagonista, attraversa a nuoto un braccio di mare con due compagni di ventura, ed arriva in un campo dove agricoltori locali coltivano marjuana. Fuggendo dalle guardie/agricoltori i tre attraversano questo vero e proprio buffer che li conduce sull’orlo di uno strapiombo, saltando dal quale essi entrano a tutti gli effetti in un mondo “altro”. Il salto dal precipizio è particolarmente enfatizzato e risulta carico di simbologia e quasi di pathos; è una cesura che porta in un luogo a sé, completamente separato dal mondo esterno, uno spazio con proprie regole e gerarchie: “gente con degli ideali” aveva detto chi aveva consegnato la mappa a Richard, dove la leader è Sal, una giovane risoluta e dalla opaca moralità, che si arroga il diritto oltre che di organizzare le attività di sostentamento, anche di indirizzare l’autogestione della salute della piccola comunità, alle prese con parassiti degli alimenti, morsi di mammiferi acquatici, estrazione di denti. La piccola comunità è completamente isolata, circondata da un’area fitta di vegetazione e controllata da agricoltori armati, e completamente autogestita: si tratta a tutti gli effetti di un’eterotopia.
L’eterotopia è un luogo dove l’alterità è relegata; è un termine coniato dal filosofo francese
Michel Foucault per designare luoghi connessi in modo particolare con gli altri luoghi della cultura che sono per così dire mainstream. Le eterotopie sono, su scale diverse, le colonie, i centri di accoglienza per richiedenti asilo, i bordelli, alcune comunità. L’eterotopia per antonomasia è certamente rappresentata dall’imbarcazione, ad esempio il Pequod o la zattera della Medusa. La rappresentazione e l’organizzazione dell’eterotopia destabilizza l’immagine della società allineata, le fa da specchio, da osceno controaltare.
Nel film questa piccola comunità è separata dal resto della società da una laguna e da una cascata, ha una fisica separazione plano-altimetrica che la colloca in una dimensione a se stante, dove si cercava il paradiso, ma si trovano promiscuità, forzature, sconcerto. D’altra parte, in una civiltà senza queste «imbarcazioni» i sogni svaniscono, lo spionaggio del panottico prende il posto dell’avventura, la polizia quello dei pirati (A.Bonazzi). La voce fuori campo, finito questo sogno spazio-temporale nella spiaggia tropicale, chiosa in maniera interessante “Io credo ancora nel Paradiso, ma almeno ora so che non è un posto da cercare fuori: perché non è dove vai, lo trovi dentro, quando senti per un momento nella tua vita di far parte di qualcosa”. Dove lo possiamo cercare, in mezzo a questa tempesta, il nostro paradiso, artificiale o naturale?