Gardumo: la fotografia e la geografia umana
L’opera di Guido Benedetti, Gardumo 77.78/17.18, è un’esperienza più che un libro. Si tratta infatti di un lavoro da leggere ed ammirare nelle fotografie che restituiscono le descrizioni della trentina valle di Gresta, appuntate dal triestino Alessandro Cucagna, un geografo del secolo scorso. La ricognizione di allora, fatta di annotazioni e interviste alle popolazioni locali, è rappresentata quarant’anni dopo con un altro strumento di rilievo soggettivo e qualitativo: l’obiettivo fotografico. Guido è un ingegnere, un collega, che si diletta nell’arte della fotografia. Questa forma di espressione artistica è, come le altre, per sua natura soggettiva, in quanto parte dal punto di vista dell’autore, ed in questo si accosta molto alla geografia come scienza sociale. La geografia può fornire immagini ortogonali, georeferenziate ed asettiche, che sovrapposte mediante l’individuazione di punti omologhi, danno una visuale tridimensionale, quantitativa e inattaccabile di quanto rilevato.
L’opera di Guido, però, si è dotata di un obiettivo, un fine diverso. Esso si rivela scevro da velleità goniometriche, rivolto ad una narrazione, ad una rappresentazione che accosti la cattura efficace ma effimera di un punto di vista a quanto venne raccontato quarant’anni prima. A ben rifletterci mi è sembrata un’operazione di positivismo geografico ben pensata, con la peculiarità dello sfasamento temporale dei due rilievi. Questa bizzarria ci porta a fare ancora delle sovrapposizioni, a crearci dei punti omologhi del tutto personali durante la consultazione dell’opera, e a scoprire che in certi contesti immagini e narrazioni non sono poi così effimeri come si diceva. “Time stands still” in alcune aree marginali di montagna, dove l’economia e l’urbanistica locale sono ancora plasmati dai muri a secco e da abitazioni frugali che compongono piccoli agglomerati. La strada che collega le borgate con il fondovalle scandisce un tempo più ricorsivo che indirizzato, collega una realtà al riparo da lottizzazioni e gentrificazione con aree urbane che dall’industria al terziario al turismo sono cambiate profondamente in questi quarant’anni.
La scienza geografica è mutata molto nei secoli, passando dalle esplorazioni al positivismo, dalle descrizioni geomorfologiche agli aspetti politici ed umani. Più di altre discipline, la geografia ha cambiato paradigmi, fino alla svolta umanistica degli anni ’70 che l’ha inserita a tutti gli effetti nelle scienze sociali, mentre all’interno dei palinsesti scolastici la materia è progressivamente uscita di scena. Tradizionalmente la geografia esplorativa si chiude con la scalata del monte Kenya da parte del geografo britannico MacKinder (1899), ed apre la stagione da un lato del naturalismo positivista, dall’altro di una lettura politica dello strumento cartografico. La fotografia rappresenta a mio avviso un mezzo di supporto ideale per la geografia culturale, che coglie gli aspetti del paesaggio dal punto di vista del soggetto osservante e ne proietta su carta il colpo d’occhio, hic et nunc. Ci furono geografi che si cimentarono persino nella pittura, per rilevare qualitativamente paesaggi di grande presa, ad esempio il Monte Fuji fu dipinto dal grande geografo Von Humboldt, se non vado errato. Questo tipo di approccio tentacolare alla descrizione del territorio, tra immagini e scrittura, tra narrazione e tratteggio, è stato svolto da Guido sugli appunti di un altro studioso, note per giunta lontane nel tempo. Come un topografo moderno ricerca i punti fiduciali e si aggancia con un ricevitore satellitare ai chiodi di un rilievo fatto anni prima a mezzo di teodolite tradizionale, così Guido ha cercato i capisaldi di Cucagna, e ne ha arricchito la testimonianza, dando dignità e fregio ad una realtà meno conosciuta del Trentino.
Il lavoro su “Gardumo” (siamo in Provincia Autonoma di Trento), l’antica Pieve che dava il nome alla val di Gresta, viene portato a termine poco prima dell’evento che farà da spartiacque a questa prima parte del ventunesimo secolo, ovvero la pandemia di SARS-CoV2. La sciagura vissuta, a livello sanitario e probabilmente ancor più sociale, ci ha portato e ci porterà necessariamente a riconsiderare il nostro rapporto con lo spazio, il territorio, con la società e gli altri. La rappresentazione e la “ribalta” di borghi periferici è già da un anno un’operazione di cui si sente parlare con insistenza. Spazi civici, servizi personalizzati e nuove modalità di lavoro possono alleggerire i problemi logistici di paesi dislocati e diviene possibile, anche in questi luoghi, fare comunità in modo diverso, attrarre persone con sensibilità particolari, lusingare le seconde e terze generazioni di lavoratori che sono emigrati a corto raggio, dare agio ai residenti riducendone il pendolarismo. La bella realtà descritta dalla penna di Cucagna e dall’obiettivo di Guido potrà continuare a vivere con forme di aggregazione. Esse, se saranno supportate da progetti di sviluppo sostenibile, si possono arricchire di nuovi spunti, spunti ovviamente “smart”, mentre per una valle che non subisce una significativa riduzione demografica, come mi è parso di vedere incrociando i dati degli ultimi 70 anni, non scomodo la parola “resilienza”, termine cacofonico ed ubiquitario che lascio ad altri chiosatori. Per contro la sostenibilità, io credo, ce l’ha insegnata proprio la gente che abita in borgate come Gardumo, a noi basterebbe guardare e imparare.