La complessità del bilancio energetico di uno Stato: il caso del Portogallo
”Energy data” è una pubblicazione annuale dell’Unione Europea; una raccolta Eurostat con i bilanci energetici degli Stati membri, che illustra i numeri su prodotti energetici, la produzione ed il consumo nelle diverse nazioni, le modalità di trasformazione dell’energia nei suoi diversi tipi e per i diversi utilizzi. È chiaro che un bilancio energetico è il punto di partenza per studiare il settore energetico di un contesto territoriale, per capire quali siano le modalità di approvvigionamento, le esigenze ed in ultima analisi la sua sicurezza energetica, termine piuttosto in voga in questo frangente storico.
La mia curiosità si è concentrata sul Portogallo per una serie di motivi: è una nazione di medie dimensioni, di poco più di dieci milioni di abitanti, con un indice di sviluppo elevato, ma non tra le primissime nazioni al Mondo (41esimo nel 2018, 38 nel 2021). La sua densità di popolazione è di circa 110 abitanti al km2, molto simile a quella media dell’intera Unione Europea. È inoltre uno Stato che spesso si cita per testimoniare come la penetrazione e l’efficienza delle rinnovabili siano soddisfacenti e rendano per diversi periodi dell’anno la nazione quasi indipendente dalle fonti fossili.
I dati Eurostat disponibili sono relativi al 2018 ed in parte al 2019, e dunque ormai un po’ datati, ma è perfettamente comprensibile che questi bilanci siano rilasciati con inerzie temporali di questo tipo, considerando l’enorme mole di raccolta di informazioni, di validazione e controllo delle stesse e le elaborazioni necessarie. I database sono disponibili non solo per le 27 nazioni della Comunità Europea (28 fino al febbraio 2020), ma anche per altre 12 Stati del continente europeo (considerando il Kosovo come Stato sovrano).
Come si può immediatamente notare dalla prima tabella riportata, la narrazione dello Stato tutto vento, sole ed energia pulita viene subito ad essere scardinata. Rispetto all’energia lorda complessiva disponibile, la percentuale di energia fossile è per tutti gli Stati dell’Unione Europea, tranne che per Svezia, Finlandia e Francia, nettamente superiore al 50%. Non fa eccezione il Portogallo, che nel proprio paniere energetico vede una presenza del fossile di oltre i ¾.
Analizzando i complicati resoconti dei bilanci energetici europei, ed essendomi focalizzato proprio sul Portogallo, mi torna alla mente un proemio tra i più belli della musica italiana d’autore: “E poi, e poi, gente viene qui e ti dice di sapere già ogni legge delle cose”. Quest’inno è intriso di purezza, di scetticismo e forse di vero e proprio preconcetto rispetto a soluzioni offerte dall’alto, predigerite e magari confezionate ad arte da qualche ricerca di mercato non scevra da interessi di scuderia. Ebbene, in questo caso è più la complessità del tema e la grande articolazione dell’argomento che dovrebbe portare ad una riflessione non tanto smarrita ed inerme, quanto alla volontà di ampliare l’analisi oltre lo slogan, qualunque esso sia.
Un articolo divulgativo non esaurisce, pertanto, un tema così ampio ed interconnesso, ma offre spunti di riflessione innanzitutto su come sia difficile fare bilanci, e su cosa significhi davvero affrontare gli stessi. Ritengo sia necessario chiarire in modo intuitivo perché, nonostante gli sforzi rispetto ai decenni scorsi, le percentuali di energia primaria fossile siano ancora così preponderanti, nonostante sia evidente dalla tabella riportata che il trend dell’ultimo ventennio abbia dato risultati tangibili. L’energia primaria, più che una commodity, è una sorgente (che tra l’altro viene misurata in tonnellate equivalenti di petrolio, o in MWh o in altre unità di misura), mentre le commodity sono l’elettricità, il gasolio da autotrasporto o i prodotti per riscaldamento. Per questo se si considera la sola energia elettrica i bilanci delle rinnovabili sono ben più lusinghieri: il Portogallo ad esempio supera, seppur di poco, il 50%. Questo significa che per il consumo elettrico è perfettamente plausibile avere una Nazione che spesso è perfettamente autosufficiente grazie alla produzione rinnovabile. Probabilmente, in questi periodi, una parte dell’energia elettrica non viene accumulata e potrebbe essere in qualche modo sprecata, o addirittura non prodotta applicando fermi a rotazione delle torri eoliche. Questa osservazione ci porta un po’ lontano, a considerare il tema di accumuli e bilanciamenti, che è stato affrontato in un altro articolo.
Avendo concettualmente suddiviso il fabbisogno energetico in 3 macroaree (elettricità, calore, trasporti) è chiaro che la transizione energetica deve concentrarsi anche sul secondo e terzo ambito. Le percentuali di fossile, inoltre, possono tradurre, quasi sic et simpiciter, la dipendenza dall’estero di una Nazione, in quanto in Europa, se si eccettuano alcuni casi peraltro esterni alla Unione Europea, le produzioni autoctone sono poco significative. Transizione e sicurezza energetica vanno dunque di pari passo e, se mi posso permettere una considerazione personale, sembrano parole che declinano politicamente a sinistra o a destra battaglie ormai inevitabili al di là degli interessi e delle scarne prerogative di bandiera.
Tornando al caso del Portogallo il bilancio energetico presentato parla di un consumo di energia primaria di 188,3 TWh, nel 2018, ovvero di 18.2 MWh per abitante. La produzione di energia elettrica è di poco meno di 60 TWh, di cui 30 TWh di energia rinnovabile. 2.7 TWh sono esportati all’estero (evidentemente in Spagna). Il consumo pro capite di energia elettrica mi sembra, da una prima analisi, piuttosto elevato. L’obiettivo è confrontarlo, magari in un prossimo articolo, con quello di altri Stati.
La ricchezza delle statistiche non soddisfa in pieno un’analisi tassonomica: non viene infatti indicata la destinazione d’uso delle biomasse e dei biocombustibili. Non è chiaro quanti biocombustibili vengano utilizzati per produrre energia elettrica, quanti in configurazione cogenerativa e per produrre calore ad uso civile ed industriale, quanti infine nei trasporti. Queste informazioni andrebbero fornite nell’ottica di indirizzare la transizione energetica anche sui consumi non elettrici. Ad onor del vero i bilanci sulle rinnovabili indicano anche le “non- combustible renewables”, ovvero il contributo termico delle rinnovabili, ed il consumo di biofuel con una differenziazione assai dettagliata (si veda la tabella seguente) ma che non entra nel merito della destinazione d’uso delle risorse. Un dato interessante riguarda anche l’energia fornita dai rifiuti. Essa è espressa in teraJoule, per cui si suppone (ma non è per nulla chiaro) che si tratti di energia primaria, non si capisce se utilizzata per produrre energia elettrica o in cogenerazione (i cosiddetti “Termovalorizzatori”) o semplicemente calore e, perché no, magari anche frigore per mezzo di assorbitori (i cosiddetti “Inceneritori”). Apprezzabile, a mio avviso, anche se andrebbe spiegata un po’ meglio, la distinzione tra rifiuti industriali, civili, e componente rinnovabile e non rinnovabile degli stessi.
L’unità di misura ed i dati pubblicati ancora provvisori per il 2019 rendono non semplicissima una chiave di lettura di queste informazioni, che a livello di trend possono denotare uno sviluppo di biogas e produzione da rifiuti, ed una sostanziale stagnazione dell’energia da biomassa solida, per la quale il Portogallo è certamente un player importante, non fosse altro che per l’isola di Madeira.
Una prima analisi molto parziale, dunque, di uno stato a mio avviso paradigmatico, che offre spunti di riflessione e ci fa capire quanto siano complesse le analisi da fare e quanto articolari gli scenari e l’approccio pianificatorio al settore energetico.