La banalizzazione dei luoghi
Qualche giorno fa è mancato il grande antropologo Marc Augè, intellettuale del nostro tempo che ha coniato il fortunato termine “non-luoghi”. Ho trovato alcune sue riflessioni molto attuali e centrate sui modelli di fruizione dei luoghi e di quel turismo “cannibale” che stiamo sperimentando in questo periodo storico.
Un luogo è uno spazio che ha acquisito un significato, una funzione, un valore condiviso nel processo di territorializzazione: i non-luoghi sono invece spazi privi di queste prerogative: centri commerciali, aeroporti, oppure contenitori virtuali dove le persone non condividono alcun tipo di esperienza nel senso della storicizzazione o della fruizione pensata dello spazio stesso. Sono contesti stereotipati, di transito frenetico, assolutamente vuoti in termini di vissuto.
I non-lieu di Augè possono essere accostati solamente in termini linguistici alle ban-lieu delle città francesi. Luoghi, questi sì, carichi di significati, pur nella loro connotazione di ghetto, di luogo proibito o in qualche modo censurato.
Mi sono chiesto, vedendo anche interpretazioni in questa direzione da parte di studiosi che analizzano i fenomeni turistici di questi ultimi anni, se queste caratteristiche dei non-luoghi siano in qualche modo riportabili anche alle mete turistiche standardizzate ed ormai snaturate, volte come sono a seguire le richieste sempre meno contestuali dei turisti. Faccio degli esempi legati alla mia “heimat”, il Trentino, terra fortemente vocata al turismo:
Da una testa sul web:
“Arrivano a Caldonazzo e come prima cosa cercano il bar”
“Ci hanno chiesto spillatrici di birra e musica a tutto volume nei prati della malga”
L’impressione è che il turista non cerchi affatto il “genius loci”, la peculiarità di un’area geografica dotata di un ambiente unico e di particolari caratteristiche che la rendono singolare, ma voglia banalizzare la propria esperienza turistica con il confort e le prerogative degli spazi che è solito frequentare: connessione, servizi, amusement…. L’offerta turistica che segue questo tipo di pretese finisce per snaturare completamente le caratteristiche di un luogo e la sua unicità o peculiarità. Nella classifica degli orrori che mi permetterei di citare ci sono: offrire ostriche e vino fermentato in autoclave al rifugio dolomitico sopra i 2500 m.s.l.m., organizzare concerti con il richiamo di migliaia di persone su spiagge all’interno di siti protetti, pretendere oppure offrire servizi ricettivi di particolare livello in contesti rurali.
Lo sfruttamento dei diversi contesti, soprattutto le spiagge gestite per due soldi di concessione con le logiche clientelari, o lo spreco d’acqua potabile per garantire livelli da albergo stellato, sono uno scenario di sottofondo poco edificante, ma la riflessione è in questo caso spostata sul turista che perde l’interesse per la particolarità ambientale in cui si trova, pretendendo, per così dire, gli standard as usual della propria vacanza stereotipata e banalizzata, senza sorprese o singolarità. Chissà se il metaverso è stato creato per questo tipo di utenza, quella che cerca un grande luna park privo di coordinate geografiche specifiche e di reali cesure rispetto al quotidiano, quando la cesura è solo una fuga contestuale dalla routine lavorativa.
Ed allora questi luoghi si avvicinano sempre più, nella fruizione, ai non-luoghi di passaggio oppure ai contenitori del tempo libero che confinano i turisti in un parco divertimenti numerato, senza connotazione specifica. Torna alla mente, anche se fuori contesto, una provocazione di un manager di una nota fabbrica automobilista: “la gente va in vacanza, ma in vacanza da cosa?”, come se staccare fosse esigenza non tanto proiettata nello spazio e nell’esperienza spaziale che ne può derivare, ma semplicemente uno status da impostare sul rosso nell’applicativo di mylife che dice “non disturbatemi: sono nell’iperuranio del divertimento, non importa dove e non lo so nemmeno io, tornerò presto disponibile spostando lo stato del menù a tendina”.