Monitoraggio della “zona morta” nel Golfo del Messico
Ogni anno le acque del fiume Mississippi raccolgono circa dieci mila libbre di fertilizzanti e altre sostanze chimiche utilizzate per l’agricoltura di quelle zone. A ciò si aggiungono ingenti quantità di acque reflue non trattate provenienti dalle aree urbane che vengono trascinate dalla corrente del fiume e scaricate a valle nel Golfo del Messico. Ne deriva un’area in cui la vita non può esistere a causa della bassissima concentrazione di ossigeno disciolto.
Le sue dimensioni sono variabili, e nel corso del 2020 è di 2.116 miglia quadrate, equivalenti a 1,4 milioni di acri di habitat. Un dato che a primo impatto potrebbe apparire confortante rispetto alla media degli ultimi decenni, ma che in realtà, come vedremo, è soltanto temporaneo.
Poco prima dei rilevamenti, l’area è stata interessata dall’uragano Hanna, che ha rimescolato la colonna d’acqua riducendo l’area ipossica. Normalmente questa si riforma dopo qualche giorno o settimana dopo il passaggio delle tempeste.
Secondo la NOAA, il dato di Giugno si attestava a 6700 miglia quadrate, che seppur inferiori al record di 8776 miglia quadrate del 2017, rappresentano pur sempre un dato notevole.
Ogni anno, i nutrienti in eccesso provenienti da città, fattorie e altre fonti nei bacini idrografici montani scorrono nel Golfo e stimolano la crescita delle alghe durante la primavera e l’estate. Le alghe alla fine muoiono, affondano e si decompongono. Durante questo processo, i batteri che consumano ossigeno decompongono le alghe. I bassi livelli di ossigeno risultanti vicino al fondo sono insufficienti per supportare la maggior parte della vita marina, rendendo inutilizzabile l’habitat e costringendo le specie a trasferirsi in altre aree per sopravvivere.
I ricercatori continueranno gli sforzi di monitoraggio e ricerca per studiare gli impatti dell’ipossia sui pesci.