“The terminal”, i non luoghi ai tempi della pandemia
Un’esperienza piuttosto sgradevole, che mi è capitato di vivere in prima persona, è quella di rimanere prigioniero di un aeroporto, non potendo uscire dall’aeroporto stesso e di contro non riuscendo a proseguire il mio viaggio. Atene era per me uno scalo ma, per problemi tecnici di bigliettazione, ho scoperto solo una volta giunto nell’aeroporto della capitale greca che il mio viaggio non poteva continuare. Peraltro, non avendo chiesto di poter entrare sul suolo ellenico con congruo anticipo, a causa delle norme dovute all’emergenza sanitaria, non avrei potuto passare la dogana e quindi mettere piede in Grecia. Mi trovavo, per così dire, in un “limbo”, costretto a dormire sui seggiolini del terminal ed a fruire dei suoi servizi igienici.
Una situazione curiosa, che ricorda il film del 2004 “The Terminal” con Tom Hanks e che, fortunatamente, ho vissuto solamente per poco più di 24 ore. Il mio impasse, infatti, era legato all’impossibilità di lasciare l’aeroporto ma, grazie ad un biglietto per Vienna per il giorno successivo consegnatomi da un funzionario della Qatar Airlines, avevo la possibilità di entrare nella comunità europea in forza del mio passaporto e del tampone molecolare negativo che avevo fatto a Kampala prima della mia partenza. Insomma, ero tutt’altro che un apolide o una persona priva di generalità: non certo come il Viktor Navorski del film americano, ma come lui sono anche io finito incastrato in questo meccanismo imperfetto che regola viaggi e relazioni politiche tra Stati e dogane. In quel momento ero inoltre tutt’altro che sicuro che il volo per Vienna sarebbe regolarmente partito il giorno dopo, in ragione di una situazione generale del traffico aereo, ad inizio dicembre 2020, assai complicata in tutta Europa.
Pare che il film The Terminal sia ispirato alla storia vera di un rifugiato iraniano che visse per diversi anni all’aeroporto Charles De Gaulle di Parigi. Navorsky, all’aeroporto JFK di New York, si ricava degli spazi, li riqualifica, li personalizza: in altre parole cerca di trasformare uno spazio in un luogo funzionale. Dopo aver parlato dell’eterotopia, con l’esempio di “The beach”, vorrei accennare ad un altro concetto che acquista importanza nella geografia umana: il “non-luogo”. L’aeroporto è, secondo l’antropologo Marc Augè, il classico esempio di un non-luogo, un concetto caratterizzato da:
- assenza di identità culturale
- assenza di rapporti tra gli oggetti esterni ed interni al non-luogo
- assenza di significato storico
I non luoghi, secondo Augè (Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, 1992), sono dal punto di vista antropologico degli spazi di transizione che non hanno sufficiente identità per essere considerati luoghi, ed incarnano una modalità tutta contemporanea di vivere e spostarsi, caratterizzata da ipervelocità ed ipermobilità. I non-luoghi sono essenzialmente degli spazi funzionali per la circolazione di merci e persone, sono ad esempio i centri commerciali, le sale d’aspetto e altri punti di “commuting”, dove le persone transitano senza un reale legame né tra loro né con lo spazio circostante. In queste aree le persone non entrano in alcun modo in relazione tra di loro.
Se ci si ferma a riflettere ex post, la frenetica rincorsa e la consultazione nervosa del tabellone dei transiti ci lascia in qualche modo un senso di vuoto e sgomento: siamo circondati da persone che non vedremo mai più, che vengono da chissà dove e, nei grandi aeroporti, sicuramente hanno altre destinazioni rispetto alla nostra: un mare di gente che si sfiora per un momento solo, nella spazialità della loro esistenza, e non ha alcuna relazione di dialogo o contatto. Questa dinamica di smarrimento si instaura, anche se probabilmente in misura minore, nella corsa allo shopping dei mall o dei centri commerciali, luoghi, o per meglio dire non-luoghi, dove le persone si trovano di fatto isolate e assolutamente prive di una concreta connessione con spazi caratterizzati da specifici significati.
Secondo il geografo Yi-Fu Tuan uno spazio diviene luogo grazie al “sense of place” ovvero l’attaccamento emotivo ad una porzione di spazio che acquista così significato e valore antropologico. Questo è quello che manca in anonime scale mobili di spazi dedicati al traffico delle cose o di persone che, nel loro spostarsi, divengono essere stesse item che si muovono in modo disarticolato.
La situazione affatto particolare dell’emergenza sanitaria ha tolto al non-luogo anche la propria caratterizzazione che spesso è rassicurante: chi lo frequenta è un cliente che vive di prescrizioni (stalli per i fumatori, file agli ascensori, spesso blande perquisizioni all’ingresso di alcuni dutyfree) e di sicurezze nel trovare, da Milano a New Delhi, il negozio di Zara ed il fast food. Ebbene, anche questa piccola sicurezza fatta di coordinate funzionali, si è incrinata nella serrata generale.
Nell’aeroporto di Atene, quasi deserto per l’emergenza sanitaria, era stata allestita una piccola mostra a tema sui giocattoli e la loro provenienza geografica. Leggendo oggi le recensioni di questa spoglia esposizione, mi rendo conto che, chi l’ha visitata, ha potuto contestualizzarla ed apprezzarla nell’ottica dell’attesa, avendo poco tempo da investire, magari in compagnia dei propri familiari. La fruizione da parte mia è stata completamente diversa e caratterizzata da un animo smarrito, incerto nello spazio e nel tempo, completamente privo di connessioni e punti di riferimento. La visita alla mostra si è rivelata per me quasi l’ingresso in ulteriore non-luogo, contenuto nel non-luogo dell’aeroporto, in un’esperienza di psico-geografia postmoderna slegata dal contesto urbano, ed incentrata invece nel limbo che mi tratteneva e che avrei abbandonato già il giorno seguente.
Il non luogo, che spesso è una scelta di rassicurante omologazione, dove un mondo di diversità è declinato con un catalogo a portata di mano, per me come per Viktor Navosky è divenuto un contenitore scomodo, disconnesso e di difficile fruizione. Chi è costretto in una situazione spaziale così particolare deve reagire e tentare di rendere quello spazio un luogo vero e proprio, attribuendogli un significato: per questo Viktor si costruisce una stanza da letto e realizza una fontana. Una reazione possibile alla “trappola” del non-luogo è proprio quella di tentarne una caratterizzazione: in quest’ottica gli anziani che si ritrovano a giocare a carte nei centri commerciali abbozzano un ruolo sociale per uno spazio non destinato all’incontro: in questo modo, come dice Yi Fu Tuan, life take place, e la colonizzazione umana dei non luoghi può comparire in modo embrionale.
Il non-luogo che forse più smarrisce e lascia sgomenti è rappresentato dal campo, uno strumento quasi tecnologico per confinare i profughi, quanti sono stati definiti da diversi autori non-persone (N. Gordimer) o homo sacer (G. Agamben). Lo spazio è stato suddiviso, nel Mondo, in quasi duecento nazioni che costituiscono dei corpi quasi atomici, disegnati su mappa. Chi rimane fuori da queste logiche, nel limbo della dogana o, assai peggio, del campo profughi, paga il dazio della definizione puramente spaziale di un popolo (Minca, 2006). E questo stato di eccezione, che definisce l’apolide e lo lascia ai margini, da una parte è ben più struggente di un contrattempo all’aeroporto o di una giornata deliberatamente passata al mall, dall’altra potrebbe giustificare, grazie alla sua mera esistenza, l’esercizio del potere delle leggi e della loro applicazione o non-applicazione. “Ma questa è un’altra storia, si dovrà raccontare un’altra volta”.